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SI APPROPRIANO DI PESACH PER FARNE UNO SPETTACOLO MEDIATICO PSICOTERAPEUTICO

Data: 2014-09-12
Autore: Gherush92

Libera ispirazione dal seder di pesach, la cena rituale che celebra la pasqua ebraica, il festival internazionale di cultura ebraica di Milano dedica il programma di tre giorni a “Il lungo cammino verso la libertà”. La manifestazione, che si svolgerà in alcuni dei luoghi più importanti della vita culturale milanese, si preannuncia come passeggiata artistico-virtuale dove, nell’elegante salotto della città, visitatori, istituzioni, giornalisti, politici potranno prendere libero spunto per una libera riflessione sulla condizione psicologica ed etica della liberazione dalla schiavitù. Un amabile spettacolo di bon-ton, una garbata maratona di pensieri ed emozioni attraverso parole, musica, arte, psicologia, secondo gli organizzatori un’occasione per riflettere sulle nuove schiavitù di oggi, continuare il viaggio verso la libertà, quasi un viaggio psicoterapeutico.

Così il ricordo di pesach, il fondamento dell’identità collettiva del popolo ebraico oppresso e reso schiavo, trasformato in una stereotipata immagine virtuale e mediatica edulcorata, strappata, dalla sua primaria essenza, non individuale ma collettiva, non universale ma particolare e sanguinosa, impetuosa, aggressiva, violenta, partigiana, segreta, prodigiosa, strategica, identitaria, in una parola rivoluzionaria, rischia di essere svenduto ad una banale fiera pubblicitaria, svuotato dei suoi contenuti fondanti, reso troppo facilmente accessibile e, semplificato, replicabile senza sforzi.

C’è da chiedersi a cosa serva e a chi giovi appropriarsi, fuori dal suo calendario prescritto, della ricorrenza di un popolo, cioè la celebrazione della rivoluzione ebraica per l’identità, per farne uno spettacolo di maniera, un divertissement - fra polpette di animali sofferenti e patatine fritte - se non a guadagnarsi le simpatie del pubblico e delle istituzioni. Temiamo che questo pesach, dolcificato secondo lo stile opportunista e piccolo-borghese, voglia quasi prendersi gioco di un pubblico reso qualunquista da espressioni adulteratrici, adulatrici e retoriche, dimentiche dei movimenti rivoluzionari, come continuare il cammino verso la libertà o rafforzare una nuova stagione di pace.

La verità è che pesach è un susseguirsi inarrestabile di violenza e sofferenza perché non esiste rivoluzione senza lotta, senza piaghe, senza feriti e morti ammazzati, traditori e traditi; la verità che l’obiettivo di pesach non sono la libertà e la pace ma la conquista dell’identità di un popolo sfruttato; che pesach è un inestricabile e misterioso coacervo di comunicazioni, strategie, alleanze, immagini contraddittorie e visionarie intrise di bruciante realtà, di sangue della vendetta e di desiderio di giustizia. La verità è che “la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza, è l’azione implacabile di una classe che abbatte il potere di un’altra classe” (Mao Tse-tung) che richiede disciplina e autodisciplina con una nuova legge. In questo senso è un’esperienza interessante.


PESACH LOTTA RIVOLUZIONARIA PER L’IDENTITÀ
In memoria di Hirsh Lekert (rivoluzionario ebreo)
1° Parte


Alla morte di Giuseppe, figlio di Giacobbe e vicerè d’Egitto, cambia il vento per i figli d’Israele, ospiti degli egiziani da quando giunsero dalla terra di Canaan per sfuggire alla carestia[1]. La famiglia d’Israele visse nella terra d’Egitto, nel paese di Goshen. In essa acquisì proprietà, fu prolifica e crebbe di numero[2] e finché visse Levi, l’ultimo figlio di Giacobbe, gli egiziani non mostrarono mai aperta ostilità, solo sporadiche provocazioni estemporanee. Il vecchio faraone, cresciuto da Giuseppe, riconosceva ai figli di Giacobbe il bene e le ricchezze che avevano portato all’Egitto, e li teneva in gran considerazione e amicizia, intervenendo personalmente su quei sudditi animosi verso i suoi ospiti: “Stolti che non siete altro, come potete pensare di insorgere contro gli ebrei, cui siamo debitori per tutto ciò che abbiamo?”

Ma già montava la voce che, di questo passo e con questo ingenuo faraone, gli ebrei avrebbero conquistato l’Egitto e assimilato il popolo egiziano. La fertilità delle donne ebree era sbalorditiva[3], ne nascevano tanti, ed essi, benché vivessero stabilmente in Egitto da tempo, non ne avevano acquisito una sola caratteristica, erano rimasti tali e quali da quando erano arrivati. Il faraone fu catturato e tenuto prigioniero finché non si decise ad appoggiare la volontà del suo popolo che voleva perseguitare gli ebrei[4]. Quando Levi, l’ultimo patriarca, muore e poco dopo muore anche quel faraone amico degli ebrei, le ostilità degli egiziani si fanno man mano più chiare e il nuovo faraone, che non aveva conosciuto Giuseppe[5] cavalca l’onda aggressiva del popolo egizio con cui annegare i figli d’Israele[6].

Il primo atto ostile fu giustificato per decreto e segnò la fine dell’ospitalità nella terra di Goshen[7]. Da quel momento gli ebrei, a cui confiscarono i campi, le vigne e i beni personali[8], sarebbero stati tassati per il suolo che occupavano e per le case che abitavano. Questo provvedimento spaventò gli ebrei - perché questo risentimento? Cosa abbiamo fatto loro? Fin dove arriveranno? - li colse impreparati, dopo anni di rapporti cordiali, amicizia, lavoro comune. Nella guerra contro Sefo gli egiziani vinsero ancora grazie al contributo dei figli d’Israele e questo fece ben sperare gli ebrei desiderosi di ritrovare gli antichi buoni rapporti con gli egiziani. Invece, questi, non solo non furono riconoscenti ma attaccarono gli ebrei alle spalle, nelle loro case, in un giorno qualunque, distruggendo il più possibile. Da allora si comportarono come se aspettassero una rivolta[9]. Inizia l’oppressione, ma anche la rivolta ebraica.

L’incursione violenta sorprese e paralizzò gli ebrei, increduli, smarriti, terrorizzati. Si sottoposero alle nuove leggi, nella speranza che tutto si sarebbe aggiustato. Bastava lavorare per gli egiziani alle loro condizioni, rinunciare al passato benessere e adeguarsi alle nuove ristrettezze, non lamentarsi, non reagire, meglio un poco maltrattati che torturati o morti. Non pensarono così gli eframiti, i discendenti di Efraim, che non ci stavano a subire un destino di asservimento; fiera stirpe di Giuseppe, abili e impavidi guerrieri, organizzarono una fuga che nessun altro appoggiò. Uscirono soli dall’Egitto, con armi oro e argento, alla volta della terra[10] e lasciarono una spaccatura tra i figli d’Israele e, insieme, la speranza e la lotta. Il deserto li seppellì, massacrati in un’ impari lotta contro i filistei e i loro alleati, quarantamila soldati. I dieci che scamparono alla strage tornarono per riferire a Efraim che la sua progenie era stata sterminata. Il primo tentativo di rivolta ebraica fallì, dunque, e da quel momento gli egiziani costrinsero con la forza gli ebrei a restare in Egitto[11].

Per evitare nuove ribellioni il faraone escogitò di decretare per gli ebrei un lavoro a salario. Bisognava fortificare le città di Pitom e Ramses e gli ebrei sarebbero diventati operai del faraone a paga giornaliera. Il faraone immaginava che la sua classe operaia salariata, per il lavoro duro, la paga minima, i diritti ridotti, la paura, sarebbe stata facile da gestire; una volta infiacchiti, sfilacciati, concentrati a sopravvivere, loro e le famiglie, gli ebrei non avrebbero più pensato a ribellarsi. E questo stare così lontano, gli uomini dalle donne, ne avrebbe diminuito le continue nascite. Anziani e consiglieri si congratularono con il faraone e “Israele costruì Pitom e Ramses in città deposito per il faraone”[12].

All’inizio, per far sì che gli ebrei accettassero di buon grado di lavorare da operai salariati, il decreto invitava chiunque, nel regno, ad unirsi ai lavori di costruzione. In questo modo essi non avrebbero sospettato delle insidie che il re tramava ai loro danni e, una volta assestati nella nuova condizione, sarebbero passati, senza poter più reagire, sotto un controllo spietato. Gli ebrei accolsero la novità quasi di buon grado. Forse, lavorando per il faraone, benché ad una paga non proprio equa, avrebbero riacquistato quell’antica grazia, inspiegabilmente perduta dopo la morte di Levi. Chi non era d’accordo a fare l’operaio mal pagato e lontano da casa, fu messo in minoranza da una maggioranza speranzosa di vantaggiosi cambiamenti. Ma ribolliva quella minoranza.

Su quel mare di schiavi galleggiava la tribù di Levi, privilegiata e libera; i leviti, infatti, non furono mai coinvolti nella schiavitù e nella confisca dei beni: dai tempi del patriarca Giacobbe era una famiglia sacerdotale e nessun faraone tocca la casta dei sacerdoti.[13] Questo stridente vantaggio sui fratelli schiavi dava ai leviti la possibilità di salvarsi ammaliando il faraone, e così fecero in molti, ma regalava anche l’ambiguo potere di negoziare, patteggiare, mediare. E come tali si proposero, portavoce ufficiale delle istanze degli schiavi. Suggerirono che si sarebbero potuti ottenere dei vantaggi senza rischiare troppo. Dall’altra parte, però, quella famosa minoranza che già surriscaldava, aveva capito che la mediazione sarebbe stata una capitolazione. Per contrastare questa posizione i leviti sostenevano, invece, che il pericolo era all’ordine del giorno, meglio temporeggiare che contestare da subito; il rischio che le cose peggiorassero suggeriva al buon senso di accettare la proposta di lavoro per un primo periodo; l’esempio di ubbidienza al faraone avrebbe, in seguito, consentito di poter chiedere cambiamenti a vantaggio dei lavoratori, uomini di comprovata fedeltà al re. Ma in quella minoranza, che fremeva e scottava, c’era qualche levita che, intuendo che gli egiziani preparavano una trappola, si mischiò ai fratelli e si fece schiavo per condividerne le sorti. In segreto fondarono l’unione dei lavoratori schiavi, per contrastare il pericolo di assimilazione e organizzare l’autodifesa. L’intento era la resistenza, la rivoluzione.

Il malvagio piano del faraone prevedeva che gli egiziani iniziassero a lavorare per primi. Man mano che gli ebrei si fossero presentati per lavorare, avrebbero ricevuto la loro paga. Poi, quando per ovvia necessità, visto che i beni erano stati loro confiscati, tutti gli ebrei fossero confluiti nelle città da fortificare, a quel punto, a poco a poco, gli egiziani avrebbero abbandonato il lavoro, lasciando gli ebrei, benché ancora pagati, sempre più soli. Non appena l’ultimo egiziano avesse abbandonato i cantieri, ecco che essi sarebbero ritornati in veste di ispettori e sovrintendenti, minacciosi, armati. Fu così che, da quel giorno, il faraone negò la paga ai lavoratori ebrei e cominciarono violenze, botte, punizioni per chi non avesse continuato il lavoro sotto gli ordini degli ispettori. Gli egiziani in questo modo ebbero in potere gli ebrei e cominciarono a trattarli con una crudeltà inaudita[14].

Tra la minoranza, la rivoluzione comunque montava. Nelle assemblee prendevano corpo sogni visionari, si scatenavano risse, germinavano teorie rivoluzionarie. Davanti ad una dolorosa quantità di compagni operai che si smarrivano, come svuotati, piegati dal giogo del faraone, fiduciosi nella mediazione dei leviti, ma troppo cupi nell’animo per vibrare alle idee rivoluzionarie, aumentavano anche i compagni pronti alla lotta a costo della vita. Della vita altrui, saettavano alcuni, della vita del nemico egiziano, malvagio, tiranno, assassino.

I lavori a Pitom e Ramses andavano a rilento, la qualità del materiale era scadente, spesso c’erano crolli o interi collassi delle strutture, moltissimi gli operai morti sul lavoro davanti all’indifferenza egizia[15]. L’oppressione incalza la necessità della lotta, la famosa minoranza infuocata si vuole fare maggioranza, apre le assemblee a tutti gli schiavi, cosa avete ottenuto sino ad oggi a farvi schiavi perfino intimamente? Cosa sperate di ottenere domani quando sarete schiavi inesorabilmente? Su cosa può mediare, su cosa ha il potere di negoziare uno schiavo, se è schiavo? Lo schiavo può solo ribellarsi. Ma i leviti oppongono, nell’immediato, la mediazione sindacale perché la rivoluzione fatta da uomini e donne in uno stato di prostrazione e miseria non ha speranza di riuscita e il rischio è lo sterminio, non avranno pietà nemmeno dei bambini e delle donne. Se il faraone accettasse di onorare la richiesta dei bisogni irrinunciabili, si potrebbe sperare in futuri miglioramenti. Essi andarono dal faraone e negoziarono per la libertà dalla fame, dalla sete, dal dolore fisico e psichico, dalla paura, trattarono per disporre di un ricovero adeguato, per esprimere la propria identità. La maggior parte degli schiavi trepidarono di una vaga speranza alla risposta che avrebbero riportato i leviti, basterebbe per vivere dignitosamente; ma i fuochi minori erano ormai steppa che brucia nella fiamma estiva, neanche il mare dei Giunchi lo avrebbe estinto, quell’incendio.

Ma il faraone non ebbe pietà nemmeno dei bambini. I leviti ritornarono alle loro case di uomini liberi, impacciati e tristi al cospetto dei fratelli schiavi nel dover dire che non cambia nulla, anzi. Anzi, il nuovo ordine è quello di non unirsi alle proprie mogli, da oggi stesso, il faraone colpirà i bambini, evitiamo una strage, non mettiamoli al mondo. Infatti essi sapevano che il faraone intendeva ridurre la forza dell’identità, arrestando l’avanzata delle nascite. Gli ebrei si moltiplicavano nonostante il bando obbligasse gli operai a non tornare a casa e i figli, senza i quali prima o poi, assimilati, sarebbero scomparsi come diversità, sono la ragione stessa dell’identità. Così il faraone ordinò di sacrificare i bambini ebrei ai culti egizi[16], di uccidere i figli maschi sin dalla nascita e gli ebrei conobbero il dolore che rende pazzi, l’assurdità dell’orrore puro. Quella pazzia, quel dolore incomprensibile, paralizzò tanti compagni, significò perdere la speranza di immaginare e di agire. Patimenti e tormenti che seguirono furono resi possibili dal fatto che non c’è cosa al mondo alla quale una creatura, priva di speranze, non possa abituarsi, può persino convincersi che è giusto anche così. Combattere contro il dolore, straziante e paralizzante fino a farsi controrivoluzionario, è la sfida più difficile, pensa Miriam della tribù di Levi, ma è una lotta interna che va fatta, prima di qualsiasi nuovo passo, “chi non si muove, non può rendersi conto delle proprie catene”[17]. Miriam contestò la decisione presa dai leviti di non unirsi alle proprie mogli, andò da suo padre Amram e lo affrontò: “Padre, il faraone colpisce solo i maschi mentre la vostra decisione colpisce anche le femmine. Inoltre togliete la possibilità a coloro che sarebbero potuti venire al mondo di partecipare a ciò che ci attende nel mondo futuro”[18].

Fu promulgato l’editto che ordinava a tutti gli egiziani di affogare nel Nilo i bambini maschi ebrei[19]. Per stanare i bambini nel caso venissero nascosti dalle madri il faraone aveva dato ordine che le partorienti ebree fossero assistite solo da levatrici egiziane, che avrebbero sottratto il neonato alla nascita; la punizione per il ritrovamento di un bambino nascosto era l’uccisione di tutta la famiglia. Yocheved, moglie di Amram della tribù di Levi, intanto, partorisce un figlio maschio e Miriam, sua figlia, aiuta la madre a progettare la salvezza del bambino. Quando non poterono più tenerlo nascosto a causa degli ispettori egiziani, prese una cesta di giunco, la cosparse di malta e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose sulla riva del Nilo, nel canneto. La sorella rimase distante per vedere cosa gli sarebbe accaduto[20].

E accadde che Mosè, salvato dalle acque, il giovane levita fattosi schiavo, ora clandestino, fugge l’Egitto: Ho ammazzato un uomo, un egiziano, allora è proprio così, senza violenza non c’è rivoluzione. Più cupo della notte che incalza il deserto batte il cuore di Mosè: Uccideremo, moriremo, ma non lasceremo nemmeno uno zoccolo del nostro bestiame in terra d’Egitto[21]. Consapevole che la morte di un uomo è un’azione definitiva ma necessaria, trema e riflette Mosè che in una rivoluzione, se è vera, si vince o si muore[22]. E che morte, che omicidio. Benché desideroso di vendetta come tutti i compagni decisi e pronti alla lotta, Mosè inferocito, impulsivo, teso, in preda ad un’ira incontenibile, non ha ucciso un uomo semplice, ma un burocrate del regno, un uomo dell’istituzione, un potente. La classe dominante va abbattuta dalla classe sfruttata, oramai su questo Mosè non ha dubbi. La morte dell’ispettore di polizia, doveva significare proprio questo e se ancora qualche mese prima si discuteva, ora l’idea rivoluzionaria non era più solo un istinto, si era materializzata, si era fatta azione anche nell’intenzione di molti compagni un tempo sostenitori della linea dell’ubbidienza per evitare il peggio.

Tutto era sofferto, tutto talmente goduto. Compagni spogliati di tutto, cinici, infelici, La rivoluzione passerà, lascerà dietro di sé solo fango misto a sangue su cui prospererà un nuovo regime. Compagni visionari, felici, Non è così perché la rivoluzione è un atto di violenza, è l’azione implacabile di una classe che abbatte il potere di un’altra classe[23]. Per questo Mosè considerò l’ispettore egiziano colpevole di essere un nemico infame, giustiziato dalla rivoluzione: prima aveva stuprato la moglie dello schiavo operaio ebreo Dotan, poi stava quasi per ammazzarlo di botte perché lo aveva scoperto[24]. Non bastano umiliazioni vessazioni, percosse, minacce, sferzate, scherno, stupri, esecuzioni - pensò Mosè - a far desiderare alla classe schiava operaia di abbattere non un uomo, ma l’intero regime? Mosè se lo trovò davanti, che massacrava Dotan, si volse a destra e sinistra per assicurasi di non essere visto, colpì a morte l’egiziano e lo nascose nella sabbia[25]. La guerriglia armata, c’è solo spazio per questo, la rivoluzione non è un pranzo di gala. La morte dell’ispettore rappresentò l’inizio, infuriava nel cuore Mosè, la coscienza del punto di non ritorno. Quasi trasecolò constatando quanti compagni erano già pronti. Non c’è niente di nuovo sotto il sole[26], dissero alla notizia dell’agguato mortale all’egiziano, oramai servono le armi, Mosè, molte armi. E le armi, ce le hanno gli egiziani. C’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire[27]. E mentre il ricordo di quei compagni era la festa rivoluzionaria nell’animo di Mosè fuggiasco, si fa vivida e dolorosa la memoria del tradimento.

Fu alla vigilia dell’incontro fissato per studiare un piano per reperire le armi che Mosè conobbe il tradimento, un doloroso buio che non avrebbe voluto assaggiare. Spie ebree, sfruttatori del dolore dei fratelli per guadagnarsi le simpatie del potere e risparmiarsi le vessazioni degli egiziani, si mescolano di continuo agli altri per corromperli, spingerli al tradimento. Vendono il proprio popolo al nemico, sono assassini veri, come una piaga, e vede Mosè le acque che si fecero di sangue per tutto l’Egitto. L’invidia aveva spinto i traditori, l’odio di chi, veramente schiavo, ha rancore verso chi lotta contro il potere oppressore per abbatterlo. Mosè se li trovò davanti, recitavano una messinscena proprio per prenderlo al laccio; uno si imponeva sul fratello spingendolo a lasciar perdere questa storia delle armi, sarà una carneficina, i responsabili passeranno sotto la scure del faraone, quale vantaggio personale, quale beneficio alla tua famiglia se non lutti e pericoli? Si era frapposto tra i due Mosè con un balzo. Eccolo l’odio interno, il fiume rosso sangue che tracima, ora prenderà il sopravvento, leggeva Mosè negli occhi di quello: “Chi ha assegnato a te che sei un ragazzo il ruolo di uomo, principe e giudice su di noi? Vorresti forse uccidermi così come hai ucciso l’egiziano?” In quell’istante Mosè vede che gran parte della sofferenza degli ebrei sarà dovuta ai delatori[28], la piaga del sangue, i nemici della rivoluzione.

In poco tempo il faraone seppe tutto: “Mosè sta disonorando il vostro manto regale e la vostra corona. Collabora con i vostri nemici, faraone. Ed egli non è il figlio di vostra figlia”. Posso solo fuggire per adesso, si consola Mosè, prigioniero metterei a repentaglio i compagni, morto li abbandonerei. Il faraone inizia la caccia all’uomo[29] e Mosè, nel ventre del deserto, rivede il dolore di Abramo: “Devi sapere che i tuoi discendenti saranno stranieri in una terra che non è loro e che gli abitanti li faranno schiavi e li opprimeranno per quattrocento anni.”[30] Ma la quarta generazione uscirà portandosi grandi ricchezze, questo è quello che deve accadere, vede Mosè, e siamo noi la quarta generazione di schiavi.

Ritrovò nel deserto Mosè un giorno della sua infanzia. Gli ebrei erano costretti a cacciare animali feroci per il divertimento degli egiziani. Il faraone amava il circo e si circondava di animali selvatici.[31] In mostra nelle gabbie erano il suo vanto, li faceva accucciare ai suoi piedi assiso sul trono, ad ostentare la forza, osannare il dominio su uomini e bestie. Disse Mosè a Batya, figlia del faraone: “Madre, odio quelle gabbie piene di poveri animali selvatici. Ma vedo anche che noi apriremo quelle gabbie e l’Egitto sarà travolto da un’invasione devastante di bestie inferocite”. Batya piangeva per l’attesa di quel momento. Mosè, bambino, piangeva per gli animali ancora prigionieri.

Ma, rabbrividisce ora Mosè solo, se aprendo le gabbie non volessero uscire? Se, persa ogni speranza, assuefatti alla prigionia, terrorizzati, scegliessero di restare? Come faremo con quei compagni veramente schiavi che non immaginano più niente, che vorranno restare in Egitto spettatori della rivoluzione? Meglio schiavi che morti, si sente ancora ripetere fra quegli ebrei che, quando non minacciano di contestare la lotta, negano anche una sola opportunità alla ribellione. E quelli che tacciono e che durante le forsennate visionarie discussioni fra compagni se ne stanno lì, sornioni, in disparte, nel cono d’ombra di chi si mette in gioco, quelli già la contrastano la rivolta, invidiosi persino dei più spezzati tra gli schiavi, che tuttavia ardono mentre sognano la guerriglia.

Mosè comprende ora che una parte consistente della libertà ebraica sarà venduta al faraone, che, a sua volta, non risparmierà nemmeno i delatori di cui si è servito. Come non risparmierà me, trema Mosè al vento deserto e freddo, che conosce di cosa è capace il faraone, il torturatore dei deboli. Adesso per lui sono un ebreo assassino di un ispettore di polizia, uno di quei maledetti ebrei, che maghi ed indovini, predicevano sarebbe arrivato a sollevare gli schiavi[32]. Con i compagni si è convenuto che il faraone mette in atto una politica spietata da una parte, ma mantiene i rapporti dall’altra perché teme i figli d’Israele; sa bene che essi non sono schiavi per natura, da qualche parte, prima o dopo, porteranno la guerra nella terra d’Egitto: “ecco che il popolo dei figli d’Israele è diventato più numeroso e forte del nostro. Avanti, operiamo con intelligenza nei suoi confronti in modo che non diventi ancora più numeroso e accada che, qualora ci sia una guerra, anch’esso si aggiunga ai nostri nemici, combatta contro di noi e se ne vada dal paese.”[33]

Proprio quel momento due ebrei giungono a corte ansiosi di comunicare al re di questo Mosè ebreo, assassino e agitatore. Se Mosè è stato tradito dai suoi, riflette il faraone, ci deve essere una vera spaccatura interna fra gli ebrei di cui approfitterà con ferocia. Se il faraone scende al fiume ancor prima che nasca il giorno per nascondersi agli occhi dei sudditi e dei cortigiani mentre sbriga i suoi bisogni corporali[34], riflette Mosè, allora egli è un pavido che teme il suo stesso popolo. Deserto nel deserto, vinto il sonno per montare guardia, Mosè ripensa a sua madre Batya, la principessa.

“Questo è uno dei bambini ebrei”[35], aveva subito capito Batya il giorno che salvò Mosè dalle acque. Messo in salvo in un cesto sul corso del fiume Nilo, fu il solo a scampare alla terribile strage dei bambini ebrei ordinata dal faraone, “ogni figlio maschio deve essere gettato nel Nilo.”[36] Trovandolo, Batya, ne ebbe compassione, non poté resistere a quel suo pianto da adulto, un pianto straziante di un fiume di schiavi. Da quel giorno, con l’aiuto e la segreta complicità della madre Yocheved e della sorella Miriam, le tre donne crebbero Mosè, “prendi, eccoti questo bambino e nutrilo per me e io ti darò il tuo compenso.”[37]

Batya, madre solidale all’altra madre, all’altro popolo, amava e proteggeva Mosè. Seguiva personalmente la sua educazione a corte. Aveva convocato precettori stranieri per affinarne l’intelletto, trasmettergli conoscenze anche occulte, le scienze, le arti liberali, le lingue. Lo aveva introdotto, giovanissimo, alle arti del combattimento corpo a corpo e della guerra, lei stessa si era adoperata per istruirlo sull’arte della diplomazia, lo aveva presentato ai re stranieri, influenti cortigiani e alla temibile casta sacerdotale e gli aveva mostrato l’esercizio della giustizia e, insieme, la forza della corruzione, gli intrighi e le violente lotte cortigiane necessarie a lambire lo sguardo benevolo del faraone. Batya intimava Mosè di tenere a mente funzioni e meccanismi della mastodontica macchina del potere, un domani avrebbe riutilizzato quel fiume di conoscenze.

Batya, figlia del Creatore, ha salvato, cresciuto, amandolo come fosse suo, il figlio di una schiava ebrea. Non lo ha perso mai di vista, lo ha protetto da ogni insidia, mentre faceva di quel ragazzino un combattente. La teme quella figlia, infatti, il faraone, conoscendo la capacità di ordire intrighi della donna più importante e influente della corte d’Egitto in quei giorni, ma forse non immaginò, sino alla fine, quanto Batya odiasse quel padre, tiranno sanguinario e schiavista Mia madre Batya sarà al nostro fianco contro suo padre e contro il suo stesso popolo, è certo Mosè, ma sa che accadrà anche ai figli d’Israele, padri contro figli, fratelli contro fratelli, amici che non si riconoscono, compagni che non si ritrovano. Mosè piange, il pianto di un popolo schiavo.

FINE 1° Parte


PESACH LOTTA RIVOLUZIONARIA PER L’IDENTITÀ
Una nuova azione rivoluzionaria
2° Parte


Mosè figlio di Amram figlio di Kehat, figlio di Levi. Mosè tu sei ebreo, questa è la tua storia. Batya portava di nascosto Mosè da suo padre Amram, da sua madre Yocheved e dai suoi fratelli Aronne e Miriam. Il padre vedeva, in quel figlio salvato, la salvezza di un popolo di schiavi; Mosè, infatti, dal punto in cui si trovava, la corte, aveva la possibilità di creare nel tempo le condizioni per aiutare gli schiavi ebrei. Amram era già vecchio, ma sognava proprio questo, e questo fu il suo contributo alla rivoluzione. Aveva condiviso la sua speranza con Batya, riconoscente a questa donna coraggiosa e indomita, che continuava a salvare suo figlio Mosè portandolo presso il suo popolo. Batya annuiva, ascoltava le vecchie storie che Amram ricordava a Mosè di non dimenticare: le gesta di Abramo che, con capacità tattiche e strategiche, vinse una guerra per salvare suo nipote fatto prigioniero con un esercito di pochi uomini contro eserciti di cinque re [38]; le imprese di Isacco che, giunto a Gherar a causa di una carestia riuscì a tessere rapporti di fiducia e potere con il re fino a diventare un uomo importante, ricco e così temuto che il re Avimelech preferì stipulare un trattato di non belligeranza: “Possa dunque il giuramento che esiste tra noi dal tempo di tuo padre, essere rinnovato ora tra noi e voi, e stipuliamo un patto con te: che tu non ci farai del male esattamente come noi non ti abbiamo toccato” [39]; l’audacia di Giacobbe che, con astuzia, fuggì con la famiglia dal suocero malvagio sottraendogli gran parte delle ricchezze, “trasse in inganno Labano l’arameo non dicendogli che stava andando via; in questo modo poté andarsene con tutti i suoi averi.” [40] La forza militare ed economica di Giacobbe era tale che Labano propose un giuramento: “Questo cumulo di pietre è testimone e la stele è testimone che io non attraverserò questo mucchio e questa stele verso di te e che tu non passerai oltre questo mucchio e questa stele verso di me per fare il male.” [41]


Mosè ascoltava le lotte dei suoi, e infuocava e infuocava e cresceva e cresceva e vedeva la voce del Creatore. Non avrebbe saputo come altro definire quel vedere da sveglio e quel tuono nel cuore, anche adesso, dentro questo infinito deserto di sabbia di stelle. Da qualche parte il deserto della fuga gli portò a mente il ricordo di Baalam, perfido e potente consigliere alla corte del faraone [42]. Amram aveva raccontato a Mosè che Balaam, al tempo della sua nascita, aveva profetizzato al faraone che sarebbe nato un bambino tra gli ebrei con una forza e una sete di dominio tale che avrebbe tolto la corona al re d’Egitto, “un grande male cadrà sull’Egitto, giacché un figlio nato dal popolo d’Israele porterà la distruzione nel paese e fra i suoi abitanti e poi condurrà la sua gente fuori dall’Egitto con mano sicura”. Il faraone, in cuor suo, temeva quegli schiavi, gli ebrei, che apparivano strani e troppo prolifici, quegli schiavi che si ostinavano a portare i loro nomi, le loro vesti, a parlare la loro lingua [43], certamente complottavano in massa contro la sua regale vita. Non più solo la forza doveva fiaccare, di quegli uomini e quelle donne, doveva strappare loro il senso della vita: i figli, il futuro, le generazioni [44]. Padri costretti a murare vivi i propri figli dentro gli stessi mattoni costruiti per il faraone [45]. E tutto quel sangue, tutte quelle grida animalesche di madri impazzite, di padri finiti, scavarono tombe per giorni e giorni, chi non gli resse il povero cuore, chi ululava furioso cercando i suoi piccoli. Mosè, crescendo, odiò Balaam come un nemico spregevole che, ancora in circolazione a corte, andava neutralizzato. Spaventato dalle intenzioni aggressive del giovane principe, che avrebbe fatto di tutto per farlo morire, Balaam un giorno scappò dall’Egitto con i due figli e si rifugiò presso un’altra corte [46]. Nel profondo del deserto Mosè vede tutti quei bambini sgozzati stretti al petto delle madri impazzite che continuavano a chiamarli, a implorarli di rispondere. Il faraone, su suggerimento di quell’assassino, aveva ordinato quella carneficina. Mosè sospira al giorno in cui ritroverà questo spietato nemico che non ebbe pietà dei più indifesi; e mentre vagheggiava quel momento vide anche la povera asina di Balaam che, nel tentativo di salvargli la vita, venne presa a bastonate e pianse [47].

Poi vide oltre se stesso, tutti gli altri ebrei numerosi come le stelle del cielo nel deserto sconfinato, un potere fortissimo, pazzesco, che spezzava il cuore ostinato del faraone. La fuga di Balaam era tornata utile alla lotta rivoluzionaria. Approfittando del suo ruolo a corte Mosè s’impose come consigliere degli interessi economici del faraone, istruendolo su come mantenere l’imponente macchina della schiavitù continuamente efficiente, con il minimo delle perdite: “E’ risaputo che se a uno schiavo non è concesso di riposare un giorno alla settimana, finisce per morire di fatica. Per certo perderai i tuoi schiavi ebrei, se non accorderai loro un giorno di tregua.” La trattativa serviva a conquistare terreno, se il faraone avesse ceduto avrebbe significato che il potere del padrone non era così saldo come voleva far credere. Inoltre, dal punto di vista degli schiavi, ottenere il diritto al riposo, avrebbe significato avere un potere contrattuale, quindi l’inizio di un cambiamento epocale. Questo avrebbe rafforzato negli schiavi il desiderio di continuare a lottare, avrebbe convinto gli scettici e i disperati che la rivoluzione può assumere anche il volto del riposo sabbatico.

Dall’inizio della schiavitù, infatti, era stata palese non solo la spietatezza ma l’impossibilità di rivendicare anche necessità minime, come lavorare meno ore, rifocillarsi durante il lavoro, essere esonerati durante la malattia, organizzare dei turni per dividersi gli incarichi, escludere i bambini dai lavori più pericolosi. Gli ebrei dovevano lavorare più degli animali degli egiziani, anche al posto degli animali stessi, portando loro il giogo dell’aratro nei campi [48]. Quelli che morivano per gli stenti sarebbero stati sostituiti da quelli che ancora resistevano, il faraone ironizzava su quei miserabili che sopravvivevano, suggeriva loro di convincere i più deboli a non morire se non volevano caricare i compagni di un lavoro doppiamente faticoso. E poi, morire per un po’ di fatica sembrava esagerato al padrone d’Egitto, certo gli ebrei non si mostravano poi così solidali l’un l’altro. In ogni caso, gli schiavi sono schiavi, ovunque, sotto qualsiasi padrone, né si era mai sentito a memoria di re che un gruppo di schiavi immagini di chiedere qualcosa a proprio vantaggio. In fondo questi schiavi hanno case, abiti, cibo e acqua quanto basta, il loro unico scopo è lavorare ed ubbidire, non prendere iniziative ai danni del re. Questo accadde fino al giorno della trattativa e fino a quel momento in tanti persero la vita. Ma a furia di farsi decimare passivamente capitò che alcuni e poi altri misero in atto diversi tentativi di opposizione: molti non imploravano più il perdono per evitare la frusta degli ispettori ma prendevano i colpi in silenzio; molti non si prostravano all’autorità preferendo la sferza al servilismo della coscienza; ci furono addirittura casi di insubordinazione, chi rischiò la vita per sottrarre compagni inermi alle feroci staffilate.

Su questa mutata realtà s’incuneò la proposta di Mosè che il padrone d’Egitto vide come una reale possibilità di migliorare le prestazioni degli schiavi, che d’altra parte sempre tali sarebbero rimasti. Nei suoi calcoli immaginò anche l’eventualità di controllarli meglio, con tutti gli animali da soma funziona il bastone e la carota. Avrebbe concesso un giorno di riposo ma aumentato il lavoro durante gli altri giorni, perché certamente non si sarebbero riposati a sue spese, non a scapito dei suoi guadagni. Fu così che trasformò in editto il suggerimento di Mosè di far riposare gli schiavi di sabato: “Così sarà per sempre, su comando del re e di Mosè figlio di Batya.” [49] Il tripudio, la gioia, i pianti festosi invasero Goshen per lunghe notti. Intorno ai falò ballavano fino a tramortirsi, gli occhi spenti da anni di ingiustizie baluginavano al cospetto di miriadi di stelle, lo splendore della speranza poteva vincere sul buio della disperazione; allora era veramente così, la mediazione degli schiavi che ottennero il sabato, il primo atto rivoluzionario, coincideva con l’inizio delle disubbidienze. Il punto era la lotta, che avrebbe potuto assumere volti diversi, differenti punti di vista, negoziato, indisciplina, accordi, proteste, prese di posizioni, scioperi, ma sempre nella direzione di ottenere miglioramenti, vantaggi, diritti. L’euforia della prima vittoria degli schiavi trascinò in quei giorni anche quelli che non avrebbero mai osato alzare lo sguardo verso gli ispettori di polizia, contagiati dall’orgoglio di chi, costretti a spintoni e botte fino al limite, hanno stabilito che no, nel baratro non ci sarebbero finiti e se proprio avessero dovuto caderci, si sarebbero trascinati dietro i nemici. Certo, andavano inebriandosi intorno ai fuochi, se gli schiavi dei re vicini avessero saputo che conquista unica e memorabile gli schiavi ebrei erano riusciti a strappare al tiranno, forse anch’essi avrebbero tratto ispirazione e forza per sollevarsi come onde di massa in massa fino all’abolizione della schiavitù come fallimento del regime oppressore. E mentre sognavano e brindavano alla vita quelle teste e cuori infuocati stabilirono che la lotta, qualsiasi sia la sua forma, deve essere programmata. Tappa dopo tappa sarebbe stata un crescendo di pianificazioni tra gioia e dolore. Così decisero che il sabato sarebbe diventato lo spazio per studiare, discutere, stabilire e vedere la realizzazione della prossima rivoluzione[50]; sabato dopo sabato, casa per casa, famiglia per famiglia, tribù per tribù, un tam tam capillare, organizzato, ebree ed ebrei in assetto di guerra. E animali, tanti, tantissimi animali. Quale miglior momento che il sabato, giorno che in virtù dell’editto del faraone era senza sorveglianza né polizia nei paraggi. Mosè vedeva in tutto questo la voce del Creatore.

Un fuggitivo, un vigliacco, uno che si fa sostenitore e poi abbandona i compagni alla lotta, a quale felicità potrei aspirare da adesso, lontano da loro che rischiano molto più di me. Il faraone sospettando che gli ebrei mi nascondono, li punirà di conseguenza. E i miei compagni non diranno una parola, nemmeno in mezzo ai tormenti. Mosè ha conosciuto gli ebrei, un’orda di schiavi più determinati e indomiti di lui, il principe; ma gli ebrei pronti alla lotta, si sono fidati di Mosè.

Da lontano giunge come una marea palpitante, un fragore di cuori che sbattono in corpi da cui uscirebbero come schegge. Eccola, Mosè ora rivede la febbre, la tensione, l’angoscia, delle assemblee all’indomani della conquista del riposo sabbatico. Nessuno schiavo aveva mai ottenuto tanto, il padrone che cede alle richieste dei lavoratori vuol dire che riconosce loro un potere, e su questo potere reale va costruita e strutturata la lotta. In quei giorni, fu tale l’euforia che non c’era luogo che potesse contenere tutti quelli che volevano partecipare alle assemblee; chi restava fuori smaniava per entrare, partecipare, sentire, ribattere, litigare; prima di prendere la parola c’era da calmare i sogni, le speranze, l’odio, la vendetta, mentre montava la possibilità, fino a quel momento sconosciuta ai loro padri, del riscatto degli schiavi. Valutando la nuova situazione, molti leviti liberi avevano deciso di passare dalla parte dei loro fratelli schiavi; che senso ha la vita di un ebreo, benché libero, separato dalla collettività? Che razza di ebreo può mai essere chi cerca vantaggi personali rimanendo servile ad un padrone che massacra i tuoi fratelli? Mosè soffia su questo nuovo fuoco che brucia e incalza insistendo che la rivoluzione non riguarda i singoli ma il popolo, che non discrimina tra i legami di sangue ma ne crea di nuovi, che la rivoluzione è l’azione implacabile di un gruppo che distrugge il potere. Ma ci sono nemici che fanno male al cuore; sono proprio quegli ebrei che faranno il possibile per impedire la rivoluzione e magari saranno i primi a scagliarsi. Ma tu, solo nel momento in cui tuo fratello alzasse la mano per ucciderti, solo in quel caso ucciderai tuo fratello. Senza di noi la rivoluzione non esiste, compagni, senza il popolo che decida di sollevarsi, non senza di me. Mosè guarda gli schiavi ebrei e già vede un fuoco che infiamma ma non consuma.

Sono questi che la sferza del faraone rende più feroci, più determinati, folli. Ma che ne sarà di tutti gli altri che hanno negli occhi solo la speranza di arrivare al giorno che tramonta, che sono spezzati dentro? Difendersi l’un l’altro, essere solidali fino alla fine, questo sentimento non baluginava ancora nei sogni di quegli ebrei, impauriti, impietriti, piagati dal dolore; e Mosè vede quel momento, quando quelli terrorizzati dal cambiamento, quelli schiavi più degli schiavi, che si svendono al faraone con i loro sporchi servigi, quelli che vorranno emergere singolarmente come capi della controrivoluzione, gli invidiosi, i corrotti, gli infiltrati, i maggiorenti, saranno nella mescolanza egizia, a voler fermare chi si sacrifica per la lotta.

Una delle priorità ora è instillare il sentimento di popolo, essenziale per dire, Io sono ebreo, perché gli altri dicano, Quello è un ebreo; Mosè decide che è ora di portarlo anche nelle case, una visione collettiva da teorizzare e mettere in opera. Salvato, cresciuto e istruito da tre donne, decide di ripartire proprio da loro, memore anche del coraggio di Rebecca, la matriarca che non esitò ad usare l’inganno e la menzogna per la salvezza del popolo ebraico. Quando suo figlio Giacobbe impaurito per la ribellione della madre le disse: “risulterei come un impostore e mi attirerei addosso una maledizione e non una benedizione” [51], risoluta Rebecca dichiarò: “la tua maledizione ricada su di me, figlio mio, tu però ascolta la mia voce.”[52] Con questi ricordi Mosè visitava le case di Goshen e parlava alle donne; i suoi occhi deliranti raccontavano visioni di un intero popolo di schiavi alla ricerca nel deserto, la libertà strappata a morsi all’Egitto distrutto e svuotato delle sue ricchezze [53]. Figli che sarebbero stati liberi, generazioni che avrebbero avuto la loro terra, la loro legge, l’identità. Sognano queste donne, le madri, le giovani, le anziane, sognano di amare, partorire e morire in una terra loro, seppellite dalla loro discendenza divenuta un popolo. Mosè piange sui loro sogni, travolto da quella trattenuta tenerezza e dagli spasmi visionari della rivoluzione. Quando se ne va, i tizzoni della brace sono più ardenti sotto la sabbia.

Il silenzio nero della notte riporta a Mosè il ricordo di tutti quegli occhi spalancati sulla decisione presa e definitiva. Quel silenzio compatto percorso dai fremiti di corpi schiavi che si sarebbero scagliati anche adesso, al primo cenno. Mosè è stato invitato ad ascoltare oggi, già sa che non potrà intervenire perché la decisione l’ha presa la maggioranza senza di lui. In uno spazio troppo piccolo per contenerne tante, l’assemblea organizzata dalle donne, fu un balzo in avanti importante per il movimento degli schiavi. Fondamentale. Le donne, generose, estreme, tigri a difesa del futuro, le donne rivoluzionarie per natura, la teoria si determina sull’azione, l’azione di salvare l’identità salvando le generazioni a venire. Venne avanti Miriam, sorella di Mosè, i suoi occhi fondi ridevano pazzi, su quel volto grave e mai ridanciano di chi ha visto tanti di quei morti tra i suoi che riderà solo quando sarà sulle barricate. Siamo pronte Mosè, decise, siamo il braccio ineluttabile che si abbatterà sull’Egitto. Nessuna parlava, fiatava, si muoveva. Assiepate in attesa, un muro compatto di carne e desiderio, a favore della rivoluzione, tutte, madri, figlie, mogli, sorelle, giovani e anziane. Siamo tutte qua, nessuna è restata a casa stanotte. Teso da uno spasmo struggente Mosè vede la solidarietà festosa e i balli sfrenati delle donne farsi buio terrifico che scende inarrestabile su tutto l’Egitto.

Si fa un poco da parte Mosè, un bambino nell’abbraccio delle fidate dune del deserto, e corre il pensiero alle madri, Yocheved e Batya, alleate, sodali, profetesse. Hanno visto lontano nel salvare proprio lui, Mosè, che da sempre si strugge di dolore e di rabbia per gli ebrei: “Che dolore, preferirei morire io che vedervi soffrire in questo modo!” Morire combattendo, questo è sicuro, minacciava a pugni chiusi il piccolo Mosè contro Batya, nella speranza di sentirsi sollevato da tanto dolore. Ma chi l’ha detto che combattendo si muore? Combattendo si può uccidere, Mosè, si deve uccidere il nemico, per non morire. E stringeva forte un ragazzino preda di un terremoto furibondo del cuore.

Mosè era ancora un ragazzo, lo divorava un roveto ardente che il fuoco non consuma, non smetteva mai di vedere la lotta degli ebrei che conquistano carri e cavalli dell’esercito del re, che conducono il faraone al patibolo, che tutti i popoli vicini vedranno e temeranno gli schiavi, che sono usciti dall’Egitto combattendo. Nell’onda del deserto, Mosè vede la guerra assumere mille forme: enormi mari che si aprono a predisporre la fuga del secolo; stuoli ed eserciti di animali terrestri volatili e acquatici alleati nella rivoluzione ebraica; sente grida lancinanti di dolore che squarciano le notti, vede sangue, tanto sangue. Mosè vede centinaia di migliaia di schiavi trasformarsi in un esercito di miriadi di locuste affamate sull’Egitto.

FINE 2° Parte


PESACH LOTTA RIVOLUZIONARIA PER L’IDENTITÀ
3° Parte


​​​La notte Mosè torna alla sua casa, la tribù di Levi, mangia con la sua famiglia, benedice il Creatore di tutte le creature e visita qualcuno. Chi digrigna i denti, ruggisce e smania per l’attesa, dove sono le decine, le centinaia, le migliaia? Chi già è pronto ad uccidere per vendicare un figlio assassinato, una moglie, una sorella, una madre stuprata, un vecchio padre bastonato, gli amici arrestati e torturati; chi quel dolore gli ha tolto tutto, e ora che non ci sono più i poveri cari, si arruola alla rivoluzione preparandosi al massacro; chi annega la soffocante insonnia d’Egitto da solo e cerca come l’aria una ragione per vivere; questi, nel mezzo della notte, aspettano Mosè. Eccoli i fedelissimi. Settanta guerrieri scelti che conoscono solo una morte, quella dei massacratori egiziani.


Volge alla primissima striscia di luce il deserto, Mosè deve ripartire. La prospettiva, almeno quaranta giorni di cammino, per eludere al meglio l’imponente rete di informatori assoldati dal faraone. Dirige i passi clandestini verso la strada dove sa che non troverà guardie.

Al campo della tribù di Levi, Aronne vede suo fratello che inghiotte il deserto. Il comitato non ha dormito questa prima notte senza Mosè, si devono studiare strategie per contattarlo e scegliere uomini che nella prossima rappresaglia egiziana si autodenuncino. Gli egiziani lo verranno anzitutto a cercare qui a Goshen, convinti che gli ebrei lo nascondano, e non risparmieranno il sadismo. Meglio che sopportino i più forti i colpi della sferza d’Egitto. Per questi qui del comitato dei settanta, ogni colpo ricevuto viene messo in conto, a buon rendere nel tempo a venire.

Mosè prende per le vie dei pastori, dove ci sono pozzi e si possono lasciare segni del passaggio, sperando che i compagni immaginino la stessa cosa.

Mosè è il principe d’Egitto, chi non lo conosce, sicuramente, per evitare di essere riconosciuto e catturato avrà preso la via dei pastori, e ci lascerà dei segni, tutti concordano con Aronne. L’ordine è che la rivoluzione va avanti, con o senza Mosè.

Aron saldo nel cuore sprona l’avanzata rivoluzionaria.

Batya a palazzo si gode la scena isterica del faraone che non trova Mosè.

Yocheved e Amram confidano in quel figlio fuggiasco.

Miriam e le donne si preparano a ballare.

La rivoluzione andrà avanti, è certo Mosè. Ma lui lontano, a perdersi gli incontri con i compagni dove si determinano le idee rivoluzionarie e si comincia a intravedere qualche strategia, la si discute, si mette ai voti, si ridiscute, si modifica, si rivota, a volte per intere nottate. E il giorno dopo pesa meno anche il lavoro umiliante da schiavo, tanta è la febbre rivoluzionaria che ha bruciato questi uomini e donne la notte trascorsa.

Il faraone impiegava gli ebrei per qualsiasi lavoro; costruivano città fortificate, lavoravano i campi[54], pascolavano il bestiame nel deserto lontano da casa [55], le donne a servizio dalle egiziane attingevano l’acqua, tagliavano la legna, raccoglievano i prodotti nei campi, gli uomini cucinavano per le famiglie egizie[56], dovevano provvedere alla manutenzione dei bagni e delle strade [57]. Tanti erano gli schiavi, altrettanti i controllori degli schiavi gente tronfia, sadica ma insoddisfatta di essere in ogni caso solo servitori agli occhi del re. Casi di abuso di potere erano frequenti, ma anche ebrei che denunciavano i compagni per salvarsi dalle punizioni collettive quando non spuntava fuori il colpevole di qualche errore. A volta c’era da impazzire. Faceva male al cuore vedere come si erano ridotti alcuni, miserabili carnefici dei loro fratelli, poveracci; ma la legge rivoluzionaria era uguale per tutti, le spie andavano messe in riga, che capissero che alla lunga non l’avrebbero spuntata, né con gli egiziani, che se ne servivano, né con i compagni, che avrebbero spiegato loro come va il mondo, alla vigilia di una rivoluzione. Quei leviti che ancora speravano nei loro privilegi, cominciarono a tremare, oramai una minoranza al cospetto dell’avanzata dei loro fratelli.

Si acquatta Mosè all’ombra del deserto per posare la malinconia che non dà tregua. Mosè ha nostalgia di tutto anche del dolore che almeno era condiviso. Ma qui, lontano da loro, cosa ci faccio?

Sono state notti frenetiche quelle a definire l’idea rivoluzionaria. L’obiettivo della lotta andava stabilito, condiviso e trasmesso alle discendenze, vede Mosè: “Questo giorno sarà per voi di ricordo perenne; lo celebrerete come festa per il Creatore; per le vostre future generazioni lo celebrerete come statuto perpetuo.”[58]

Si accendono come fuochi gli ebrei che decidono la rivoluzione, chi sostiene che si deve combattere per ottenere la libertà chi per definire l’identità; la libertà a cui si riferiscono molti schiavi è quella di poter determinare la propria vita secondo i desideri e i bisogni e comunque, insistono, la libertà è un necessità inalienabile della persona. Quindi, l’ obiettivo finale della rivoluzione, il punto d’arrivo. Si oppongono quelli che sostengono che il punto di partenza deve essere la liberazione che è ancora più funzionale della libertà, perché la liberazione dalla schiavitù non si riferisce alla libertà personale, bisogni, desideri, necessità individuali; la liberazione dallo stato di schiavi deve condurre alla determinazione dell’identità, della legge. L’identità ci distingue dagli altri popoli, mentre la libertà ci accomuna tutti, vale per tutti, tutti ci si identificano. L’identità dà senso alla libertà, perché la libera dalla deriva dell’omologazione, dell’asservimento. Tutti liberi senza le diverse identità, saremmo tutti uguali, conformati, di nuovo schiavi. Vorrebbe dire la morte della diversità, di tutta la diversità, che il Creatore ha creato affinché viva, perchè è molto buona [59]. E vede Mosè la voce del Creatore: “Io sono l’Eterno, il vostro Signore che vi ha tenuti separati dagli altri popoli.”[60] Allora racconta di un lupo, che fuori dal branco non ha avuto speranze di farcela; tutta la sua vita si determinava nel gruppo, l’amore, la fame, la legge. Contava l’appartenenza, non la libertà per quel lupo. Da solo, anche se giovane, forte, sano, libero non ce l’ha fatta. Mosè vede il tuono nel cuore, “Vi prenderò per me come popolo”[61], la rivoluzione serve solo a questo, pronuncia Mosè negli occhi dei compagni.

Aronne ricorda all’assemblea il tempo di Giuseppe. La casa di Giacobbe visse lungamente libera, ospite nella terra d’Egitto e in buoni rapporti con il faraone e gli egiziani [62]. Insieme agli egiziani i figli d’Israele condividevano la libertà che li accomunava, ma ebrei ed egiziani non mangiavano alla stessa tavola, non vestivano alla stessa maniera, non si mischiavano con le nozze né nelle tombe. La casa d’Israele era libera, ma non sentiva il desiderio di assimilarsi agli egizi, si trattava di vivere liberi separatamente. E quella realtà funzionava per tutti. Poi precipitarono i giorni, il faraone fu tiranno e ci privò della libertà di essere ebrei, attraverso l’odiosa schiavitù. Ma è evidente che noi, questi che siamo qui a decidere sul nostro comune futuro, ribolliamo, nessun tiranno può rendere schiavo il pensiero, le idee, i sogni. La schiavitù deve svuotarci di ciò che siamo collettivamente, renderci individui talmente privati di tutto che conta solo guadagnare un altro giorno, o perderlo definitivamente. Questo obiettivo del faraone ci ha colpiti in pieno, massacrandoci. Tanti, tanti ne abbiamo persi di compagni, e ne perderemo finché penseremo a noi stessi come individui, quei fantocci vuoti così cari alla schiavitù. Certo, per ognuno di noi qui che non dormiamo le notti immaginando azioni definitive come morire ammazzati o uccidere, ci sarà pure un’aspirazione rivoluzionaria particolare, un motivo personale per cui partecipiamo alla lotta, ma esse, tutte le motivazioni intime si ricompongono inevitabilmente solo sotto il vessillo dell’identità comune. Una volta liberi perché liberati, saremmo proprio come quel lupo, se non condividessimo la legge.

Annuisce Mosè, e vede che la liberazione ha proprio la strada del deserto, l’estremo paesaggio dove la libertà per il singolo è morte sicura. Solo l’appartenenza all’assemblea, la convocazione di tutto il popolo, conta per quell’uomo, non la libertà: “Questi sono i tempi stabiliti del Creatore, le sacre convocazioni.”[63]

Le donne erano da sempre nel partito rivoluzione per l’identità perché mai abbandonarono i nomi salvati dal tempo dei patriarchi, la lingua parlata, gli antichi abiti delle matriarche [64]. Dritte come un dardo incendiario puntavano ai figli, proprio nel deserto essi sarebbero stati ebrei figli di genitori ebrei sotto un’unica legge, finalmente distinti dagli egiziani figli di egiziani: “Quel giorno racconterai a tuo figlio e dirai: per questo precetto il Creatore mi ha fatto uscire dall’Egitto.”[65] L’identità spinge alla liberazione che serve per prendere la legge; questa meraviglia rivoluzionaria che costerà molto sangue porterà attacchi anche dal cielo, e Mosè vede la grandine, una marea di grandine infuocata, coprire di morte l’Egitto.

Ora risente Mosè quel terremoto, tesissimi i nervi, il corpo, la coscienza era chiarissima, la vedeva tutta nella sua tensione verso l’obiettivo rivoluzionario, che implicava sicuramente anche la morte. Mosè si guarda a destra e a sinistra, e tutto accade come un battito d’ali, con l’odio e il dolore di chi uccide e di chi muore. Senza violenza, non c’è rivoluzione, piange Mosè su quel sangue versato, e il giorno dopo i compagni hanno solo detto, Adesso, Mosè, servono le armi, tante armi. La prima azione rivoluzionaria apparteneva già a tutti. Tranne a quelli che, ancora fiduciosi di salvarsi loro soli, tradirono Mosè.

Si mette in moto il formicaio ebraico, le notti e i giorni nella casa della schiavitù ma a costruire i mattoni della rivoluzione. Mosè supera pozzi sulle piste di pastori, le notti e i giorni a vedere la voce del Creatore della rivoluzione: “Io rivolgerò la mia mano contro l’Egitto e farò uscire dalla terra d’Egitto le mie schiere, i figli di Israele, il mio popolo, con grandiosi atti di giustizia.”[66] Escono gli eserciti del Creatore, esce la schiera ebraica dopo aver devastato l’Egitto come una rana che più viene colpita più genera migliaia di miriadi di altre rane [67] che, “Assaliranno te, il tuo popolo e tutti i tuoi servi” [68], potentissimo faraone.

L’imponente e temibile esercito del faraone sparso come la sabbia del deserto non ha scovato Mosè e nel frattempo intento alla caccia ha lasciato sguarniti punti nevralgici preziosi ai compagni che mordono la rivoluzione; intanto, nessuno dei maghi e sacerdoti d’Egitto, continuamente vessati dal faraone, vede dove si trova Mosè.

La terra di Midian ferma la fuga di Mosè. Itrò il sacerdote di Midian fuggì la corte d’Egitto per non collaborare col perfido Balaam quando consigliò al faraone di far sgozzare i bambini ebrei davanti alle madri [69]. Ma Itrò ora viveva bandito anche dai suoi concittadini che diffidavano di lui da quando, con la scusa della vecchiaia, aveva abbandonato il sacerdozio. In realtà Itrò aspettava la rivoluzione in Egitto e sperava di poterne almeno in parte partecipare; uno dei sette nomi di Itrò significa compagno del Creatore, per questo aveva abbandonato gli idoli[70], amico dei rivoluzionari[71].

L’ultimo pozzo, rincuora Mosè, qui si deve determinare questa clandestinità. I compagni avranno trovato i segni e prima o dopo ci ritroveremo.

Aronne viene a sapere da una staffetta che Mosè si è fermato a Midian; Aronne s’alleggerisce il cuore, il fratello è vivo, e conferma, Qui andiamo avanti noi, l’azione prosegue, incontreremo Mosè a suo tempo.

Amram e Yocheved piangono di gioia.

Batya aiuta i rivoluzionari a portare via armi e munizioni dai depositi della guardia reale.

Miriam e le donne fanno le prove generali del ballo rivoluzionario.

Le figlie di Itrò, pastore del gregge del padre, lavoravano per lui, uomo oramai isolato per le sue simpatie verso il Creatore della rivoluzione[72]. Sempre unite per proteggersi dalle angherie dei pastori, anche loro nemici del padre. Portano il gregge al pozzo nell’ora infuocata del deserto. I pastori le incalzano, impediscono agli animali di bere, sghignazzano, insultano, spintonano, tentano di violentarle, allora, “Mosè si alzò, le salvò e abbeverò il loro gregge."[73] Mentre i pastori doloravano a terra Mosè disseta anche il loro gregge[74], gli animali non devono pagare per i vostri errori, chiarisce Mosè. Corrono le ragazze dal padre per raccontare l’accaduto: “Un egiziano ci ha salvate dai pastori; egli ha anche attinto l’acqua per noi e ha abbeverato il gregge.”[75] Itrò pensa al fuggiasco ricercato dal faraone. Non si può consegnare alla polizia egizia chi ha difeso e aiutato donne e animali, non qui a casa mia. “E lui dov’è? Per quale motivo avete abbandonato là quell’uomo? Chiamatelo e mangerà del pane.”[76] Mosè decide di vedere un’occasione nell’invito, accetta l’ospitalità ma tace l’appartenenza, lasciando le figlie di Itrò descriverlo come un egiziano senza protestare e dichiararsi ebreo; allora Mosè vede la voce del Creatore che gli impedisce di morire nella terra dei suoi padri, ma lontano, potrà vederla solo da lontano[77]. La condizione di fuggiasco braccato ha spezzato le forze di Mosè, lontano dai miei, chi sono?

Itrò vede i segni di un rivoluzionario ebreo, certamente è un discendente di Giacobbe[78], mette Mosè alla prova, lo rassicura sulla sua fedeltà e solidarietà e gli propone un accordo, “Acconsentì alle condizioni per abitare con quell’uomo e questi diede a Mosè in sposa la propria figlia Tzipporà.”[79]

E Mosè fu pastore del gregge di Itrò e fu padre, in esilio dal suo popolo, “Egli lo chiamò Ghershom perché diceva: Sono stato straniero in una terra straniera.”[80]

Le armi sono pronte, ora sepolte tutt’intorno al villaggio di Goshen in attesa di essere disseppellite. Costate troppo in termini di vite, molti compagni torturati. Morti per non aver rivelato niente ai loro boia. Per questi nostri sia devastato l’Egitto dieci volte tanto.

Il faraone si è ammalato, ora è ossessionato dalla sua vita regale che l’abbandona, per guarire fa sgozzare trecento bambini ebrei al giorno per immergersi in quel sangue[81]. Batya abbandona gli idoli, si fa rivoluzionaria.

Pascola Mosè il deserto, si allontana insieme al gregge, adulti, piccoli, anziani, madri che allattano. Pensa a sua moglie a suo figlio, Devo scendere in Egitto con loro; cosa ci fa qua Ghershom lontano dai compagni, dai fratelli e Tzipporà sola, senza Miriam e le donne? E cosa sono io, se non sono ebreo? Gli egiziani picchiavano, torturavano e umiliavano gli ebrei in quanto ebrei, e il loro sangue, colava come acqua[82]; Mosè vede il grido di fuoco nel deserto, “Ecco, ora il grido dei figli d’Israele è giunto fino a me”[83], Mosè vede la voce del Creatore farsi battaglia e tutta la sabbia del deserto in turbine farsi schiere di miriadi di pidocchi a invadere tutto l’Egitto. “E ho visto l’oppressione con la quale gli egiziani li affliggono”[84], vede Mosè l’afflizione di migliaia di corpi egiziani piagati da pustole che non rimarginano, oppressi dalla voce del Creatore.

“Mosè Mosè.”[85] Ecco il tuono nel cuore, “Eccomi.”[86] Sul monte Chorev, il Monte di Dio, Mosè si scalza i sandali per toccare una terra sacra[87]. Il monte si scuote, nessun uccello posa [88]. Mosè vede il tuono nel cuore, nel cuore di una fiamma, “osservò ed ecco, il roveto stava bruciando nel fuoco ma il roveto non si consumava.”[89] Questa grande visione è la lotta del mio popolo che il fuoco della schiavitù non consumerà: “quanto più gli egiziani si sforzavano di opprimerlo tanto più i figli d’Israele aumentavano e si rafforzavano.”[90]

E l’onda di tuono invade tutto Mosè, “Ho osservato attentamente la sofferenza del mio popolo che si trova in Egitto,”[91] poiché tutti i lavori che imponevano loro erano estenuanti.[92] Anziani, bambini, lavoravano anche di notte[93].

“Ho udito il suo grido a causa della crudeltà dei suoi oppressori,”[94] perché gli egiziani provavano avversione a causa dei figli d’Israele.[95] Costringevano gli ebrei a portare in testa lampade accese per fare luce, muoversi senza ordini significava decapitazione [96].

“E ora presterò attenzione alle sue pene.”[97] Le nostre pene hanno il volto della follia, la morte violenta dei figli.[98] Anche i bambini egiziani, se sentivano un neonato piangere correvano a fare la spia ai loro padri che erano autorizzati ad uccidere bambini ebrei affogandoli nel Nilo.[99]

“Scenderò per salvarlo dalla mano dell’Egitto e per portarlo via da quel paese, verso una terra bella ed estesa, verso una terra stillante latte e miele.”[100]

Mosè vede tutta la rivoluzione ebraica abbattersi sull’Egitto, tutta la legge ebraica farsi identità di un popolo, ma la terra, la bella terra di latte e miele, la vede solo da lontano, “questa è la terra a proposito della quale ho promesso ad Abramo a Isacco e a Giacobbe dicendo loro, La darò alla tua discendenza. Te l’ho mostrata perché la vedessi con i tuoi occhi, ma là non ci potrai entrare.”[101] Morire lontano, fuori, solo. Il dolore si fa deserto, sconfinato, Mosè ricorda il giuramento fatto a Giuseppe quando disse ai figli d’Israele: “Il Creatore di certo terrà conto di voi e vi farà uscire da questo paese verso il paese che ha giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. Il Creatore terrà conto di voi e allora voi porterete le mie ossa via da qui.”[102]

“Ora vai. Io ti manderò dal faraone e tu porterai il mio popolo, i figli d’Israele, fuori dall’Egitto.”[103] L’uscita dall’Egitto la ricorderemo nella legge, tuona Mosè nel cuore.

Ed ecco che vede tutta la grandezza, tutta l’imminenza della rivoluzione che brucia ma non si consuma e vacilla, “Chi sono io che debba andare dal faraone?”[104] Novello assassino, incompiuto liberatore di sogni, il fuggiasco, il fratello, il padre, l’amico, il figlio, il compagno, l’odiato Mosè, al cospetto di grandiosi atti di giustizia che abbatteranno il potere dell’Egitto. Improvvisamente non è più pronto. Si sente piccolo di fronte a troppa grandezza, andare dal faraone, portare fuori dall’Egitto i figli d’Israele. Vede infatti Mosè che il privilegio di guidare la rivoluzione spetta a lui solo, è unico e non si trasmette ai discendenti. Ma questa unicità escluderà il sacerdozio, prerogativa di suo fratello Aronne e dei suoi discendenti, e la corona, spettante alla casa di Davide[105]. Un privilegio unico, trema freddo Mosè, solo, al cospetto del roveto ardente.

“E gli ebrei che meriti hanno che io debba fare uscire i figli d’Israele dall’Egitto?”[106] Ora Mosè è solo un uomo, tradito dai suoi che lo hanno denunciato al nemico. Ora lo precipita il peso dei compagni, dei fratelli, del sangue che tradisce il suo sangue. Vendere la tua gente alla polizia segreta, calpestano i morti e distruggono i vivi, pur di sopravvivere loro soli. A causa di questo, potrebbero mai uscire dall’Egitto i figli d’Israele?

Il tuono, quel tuono risale, e vede Mosè la voce del Creatore, Questo popolo sarà tratto dall’Egitto per i meriti che acquisirà presso questo monte, dove tramite te riceverà la Torà[107].

La legge, la legge di Mosè. Su questo monte. La rivoluzione, l’uscita dall’Egitto. I compagni, figli d’Israele, il popolo ebraico. Fuori dall’Egitto, separati. Il deserto, il popolo si fa nel deserto. La legge nel deserto.

Settanta miriadi nel deserto. Fare uscire settanta miriadi di figli d’Israele dalla schiavitù, sono tantissimi, troppi. Il faraone sa bene che uno schiavo che ha servito il suo padrone per dieci anni senza mai fare un fiato non immagina nemmeno che esista la libertà. Come posso portare fuori, settanta miriadi?[108] Come potrei sfamarli, dissetarli, nel deserto? Tra loro tante stanno per partorire, altrettante allattano, i bambini non si contano. Come posso proteggerli e averne cura come richiede la loro condizione? E i pericoli del deserto?

E la mia vita?[109]

Allora vede tutta la solitudine possibile. Tutte quelle miriadi di popolo, quei compagni di lotta, il monte di Dio, la legge, il deserto e solo il Creatore a fargli compagnia, “Mosè, servitore del Creatore morì in quel luogo, nel paese di Moav, per mezzo di un bacio della bocca dell’Eterno. L’Eterno stesso lo seppellì nella valle, nel paese di Moav.”[110]

Forse è per questa solitudine che non mi crederanno, i figli d’Israele; ritornare dopo anni in nome di chi? Per dire cosa?

“I figli d’Israele gemevano durante il lavoro e piangevano. Il Signore ascoltò il loro lamento e il Signore si ricordò il suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe.”[111]

In nome del patto si fa la rivoluzione, il patto che genererà la legge del deserto che condurrà alla terra che mestrua latte e miele. Questo monte del deserto è dove noi ci faremo popolo, il luogo più separato da tutto. Mose vede il lampo accecante della rivoluzione, si riscatteranno gli schiavi, con grandiosi atti di giustizia, per il suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe.

Il nome, l’essenza di questa rivoluzione, qual è? Nel cuore di Mosè arriva Adamo che conosce e dà i nomi alle creature viventi perché condividono insieme la vita del creato[112]. Chi è nella rivoluzione?

“Io sarò con te.”[113] Helohim, il giudice, Tzevaot, il Signore degli eserciti per ingaggiare battaglie, El Shadday, l’Onnipotente che aspetta il ravvedimento, Adonay che ha misericordia del creato.[114]

E i figli d’Israele?

Mosè vede la voce del Creatore, “Io sarò d’aiuto mi ha mandato a voi.”[115] Il Signore di Abramo, di Isacco e di Giacobbe sarà con il popolo ebraico.[116]

Improrogabile. Allora sta per iniziare, non resta tempo per rivedere niente, per pensare a niente, per decidere altro. La misura è colma. Tornare in Egitto, mi tradiranno ancora Datan e Aviram, non servirà a niente, non farò in tempo a dire niente. Forse non mi riconosceranno o come crederanno che sono ancora pronto a fare la rivoluzione. Da solo, devo andare da solo, per convincere un popolo di miriadi? Mosè vede che sarà dal faraone che andrà, non dai figli d’Israele, da loro, andrà suo fratello Aronne[117].

Il faraone, il potente d’Egitto, il tiranno, non ascolterà un assassino, non tremerà di fronte a un fuggiasco che balbetta. Egli è schiavo dei suoi pregiudizi sugli ebrei, della sua ferocia, della sua presunta grandezza. Parlare al faraone non servirà alla causa rivoluzionaria. Il faraone deve solo saggiare la forza bruta.

“Io sarò con la tua bocca e ti indicherò cosa dovrai dire.”[118] Ma Mosè vede che le parole prepareranno la guerra, e il suo bastone castigherà il faraone[119].

Redimere Israele, punire l’Egitto, prendere la legge. Tutti questi atti grandiosi, l’onore, il peso, che senso ha un solo uomo? Un uomo solo? Mosè urla tutta la solitudine possibile, tutte quelle miriadi di popolo, quel sangue versato, e solo il Creatore a fargli compagnia.

“Creatore, ti prego, di mandare chiunque tu voglia mandare, ma non me.”[120] Ora si dispera Mosè, non può farcela lui. Non nascerà forse il grande Rabbì Akiva, che spiegherà la legge, quella che io prenderò su questo monte, in settanta volti diversi, che io stesso non la riconoscerò come mia? Vede Mosè. Piangeva, sfinito, il cuore tonante. E non morirà il grande Rabbì Akiva torturato dal nemico mentre invoca il tuo santo nome? Un vero saggio, un rivoluzionario della rivoluzione, cosa c’entro io, scappato dai miei, nascosto, che ho lasciato tutto a metà?

Ma vede Mosè che è così che devono andare le cose[121]

Non regge il tuono nel cuore, Mosè è troppo solo, smarrito, lontano da tutti. Dov’è suo fratello Aronne? Il vecchio padre, sua madre? Dove è Miriam e il suo canto? E Batya, vivrà? Piange Mosè, Se io non sono per me, chi è per me? Ma quando io sono per me stesso, cosa sono io?[122] Nient’altro che Mosè. Niente altro.

“Non c’è forse tuo fratello Aronne il levita?”[123]

La tribù di Levi. La mia. Levi, figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo. La terra, la legge, la schiavitù, vede Mosè.

“Ecco che ti verrà incontro e quando ti vedrà gioirà in cuor suo.”[124]

Mi riconoscerà, ci abbracceremo. La morsa si placa nell’abbraccio di Aronne, Mosè sente sciogliersi tutto l’amore possibile per il suo unico Aronne e questo compagno, questo amico e fratello lo invade come pioggia benefica su un fuoco che brucia.

“Tu gli parlerai e gli suggerirai le cose da dire. Io sarò sia con la tua che con la sua bocca e vi indicherò quello che dovrete fare.”[125]

L’azione è decisa. Vede Mosè, Questa è la legge rivelata a Mosè sul monte Sinai.

Tante tante vite che dipendono da lui, ma fuori dall’Egitto, nel deserto, tanti anni a lottare nel deserto, fino alla mia morte. Su questo monte, da dove, “Tu potrai osservare la terra da lontano, ma non potrai entrare là, nella terra che sto per dare ai figli d’Israele.”[126] Mosè vede tutta la solitudine possibile e solo il Creatore a farli compagnia.

“Tieni nella mano questo bastone, con il quale compirai i segni.”[127]

Mosè stringe questa arma che castigherà l’Egitto, vede il braccio armato del Creatore che incalza: “ho detto che vi solleverò dalla sofferenza d’Egitto”[128], cosa altro possono fare gli schiavi se non ribellarsi per liberarsi? Ma se non ora, quando?[129] Urla, finalmente Mosè in un deserto di solitudine.

“Mosè si avviò e tornò da Itrò per chiedergli il permesso di partire.”[130] Itrò pensò a sua figlia e ai nipoti, era preoccupato per i rischi che avrebbero potuto correre, i bambini erano molto piccoli, Tzipporà allattava; disse a Mosè: “Coloro che sono in Egitto stanno per andarsene e tu ne vorresti condurre laggiù degli altri?” Ma rispose Mosè: “Presto gli schiavi d’Egitto saranno riscattati, lasceranno quella terra e si raduneranno ai piedi del monte Sinai e i miei figli dovrebbero mancare in questa occasione?” Itrò vide che Mosè aveva ragione, “Va’ dunque in pace, in pace recati in Egitto e in pace abbandona quella terra.”[131]

Mosè riceve la benedizione del suocero ma vede la guerra del Signore in Egitto e nessuna pace possibile.

Nessuna pace possibile. Il comitato dei settanta in quegli anni sotto la guida di Aronne aveva esercitato i compagni alle armi, dato che il faraone aveva intensificato i lavori a carico degli ebrei e continuavano torture e uccisioni. Prersumeva il faraone che senza l’elemento catalizzatore, il famoso principe d’Egitto, gli ebrei si sarebbero smembrati perdendo definitivamente la forza della collettività. A quel punto restava ai compagni solo la possibilità di organizzare la lotta armata, Nessuna concessione, dopo quella del sabato di riposo, verrà più data agli schiavi, decretò il faraone. Ma quel sabato ottenuto era la goccia che scava la roccia. Gli ebrei ogni sabato esercitavano l’identità, armata sino ai denti. Dei famosi leviti privilegiati restava qualche scia, come rare stelle cadenti. Gli altri, si fecero anch’essi schiavi guerrieri per solidarietà alla rivoluzione, Il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione[132], conclusero in quell’assemblea quando tornarono indietro dopo anni che erano vissuti liberi e privilegiati. Fu un giorno di grande commozione, il ritorno a casa di chi aveva sperato nell’individualismo, nella libertà personale, nel lignaggio, per salvare cosa, se non se stesso.

Mosè nel viaggio di ritorno che lo riporta in Egitto, è assalito ancora dai dubbi. Non è preoccupato per se stesso, ha saputo che gli uomini che volevano ucciderlo sono morti[133]. Piuttosto continua a ripetersi che forse i compagni non avranno fiducia in lui, non lo ascolteranno, e poi Aronne, tutti questi anni a soffrire con i compagni, a lottare per tirare dentro chi era fuori, a rischiare ogni giorno di essere scoperti, Lui è più grande di me, lui deve essere la guida e io il suo braccio armato. Mosè sente l’inadeguatezza di chi da anni non ha partecipato a costruire la rivoluzione nella condizione di schiavo, ma pastore solitario ha vissuto solo di nostalgie e ricordi, Ho da tempo dimenticato cosa sia la privazione, la fatica, la sofferenza, la paura, che nei compagni sono diventate lo sprone violento della necessità della rivolta. Così non sarò convincente né ai loro occhi né a quelli del faraone. Tra questi turbamenti Mosè rallentò il viaggio tentando di temporeggiare. Ma nella locanda in cui si fermarono a riposare fu assalito Mosè in un agguato che quasi moriva[134]. La prontezza della reazione di Tzipporà lo salvò, ed egli capì quanto addirittura sua moglie fosse più avanti di lui nella strada che porta alla rivoluzione, Mentre io sto ancora macerandomi nei dubbi, tutte le donne ebree hanno già le armi in pugno, pronte a dare un futuro di popolo ai loro figli, come la mia Tzipporà che ha lei stessa circonciso nostro figlio[135] perché sia parte della straordinaria esperienza rivoluzionaria. L’ammirazione e la tenerezza verso le madri, le figlie, le spose d’Israele che furono le prime ad assumere una posizione definitiva mentre ancora gli uomini discutevano dei principi rivoluzionari, rimise Mosè sui suoi passi verso l’Egitto.


FINE 3° Parte
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[1] Bereshit 47,4.

[2] Bereshit 47,27.

[3] Bereshit Rabbà 79,1.

[4] Talmud Bavlì, Sotà 11a; Shemot Rabbà 1,8; Tanchumà, Shemot 5.

[5] Shemot 1,9.

[6] Seder Olam Rabbà 3.

[7] Bereshit 47,6.

[8] Shemot Rabbà 1,4; Tanchumà Shemot 3; Sefer Hayashar , Shemot 118a e 122a-b.

[9] Sefer Yashar, Shemot 112b e 125a-b.

[10] Talmud Bavlì, Sanhedrin 92b; Shemot Rabbà 20,11 et al.

[11] Sefer Hayashar, Shemot 137a-b; Pirkè de Rabbì Eliezer 48.

[12] Shemot 1,11.

[13] Sefer Yashar, Shemot 125b -127a.

[14] Sefer Hayashar, Shemot 125b-127a.

[15] Talmud Bavlì, Sotà 11a; Shemot Rabbà 1,10-11 et al.

[16] Pirkè de Rabbì Elieser 48.

[17] Rosa Luxemburg, rivoluzionaria ebrea.

[18] Talmud Bavlì, Sotà 12a; Mechiltà de Rabbì Shimon 3 et al.

[19] Shemot 1,22.

[20] Shemot 2,3-4.

[21] Shemot 10,26.

[22] Che Guevara, rivoluzionario ebreo.

[23] Mao Tze Tung

[24] Sefer Hayashar, Shemot 133b; Shemot Rabbà 1,28.

[25] Shemot 2,12-13.

[26] Kohelet 1,9.

[27] Kohelet 3,3.

[28] Shemot 2,14.

[29] Shemot Rabbà 1,29-30; Tanchumà, Shemot 9-10; Avot de Rabbì Natan 20,72.

[30] Bereshit 15,13.

[31] Yalkut Shimonì, Vaerà 182-83.

[32] Shemot Rabbà 1,18.

[33] Shemot 1,9-10.

[34] Shemot Rabbà 9,8 et al.

[35] Shemot 2,7.

[36] Shemot 1,22.

[37] Shemot 2,9.

[38] Bereshit 14,1-24.

[39] Bereshit 26,28-29.

[40] Bereshit 31,20-21.

[41] Bereshit 31,52.

[42] Sefer Hayashar, Shemot 128a-130b; Divrè Hayamim 1.

[43] Mechiltà, Bò 5,5a, et al.

[44] Sefer Hayashar, Shemot 128a-130b.

[45] Talmud Bavlì, Sanhedrin 101b.

[46] Sefer Hayashar, Shemot 132b-133a.

[47] Bamidbar 22,23-25.

[48] Yalkut Meam Loez, Vaerà 13,5.

[49] Shemot Rabbà 1,28; Sefer Hayashar, Shemot 133a.

[50] Shemot Rabbà 5,18; Midrash Tanchumà, Vaerè,6.

[51] Bereshit 27,12.

[52] Bereshit 27,13.

[53] Shemot 12,36.

[54] Tanà Devè Eliyahu Rabbà 7.

[55] Shemot Rabbà 11,4.

[56] Midrash Tanchumà, Vayetzè 7.

[57] Midrash Tanchumà, Vaerà 12.

[58] Shemot 12,14.

[59] Bereshit 1,31.

[60] Vaikrà 20,24.

[61] Shemot 6,7.

[62] Bereshit 47,5-6.

[63] Vaikrà 23,4.

[64] Mechiltà, Bò 5,5a, et al.

[65] Shemot 13,8.

[66] Shemot 7,4.

[67] Talmud Sanhedrin 67b.

[68] Shemot 7,29.

[69] Sefer Yashar, Shemot 138b; Targum Yerushalmi, Shemot 2,23, et al.

[70] Rashi su Shemot 2,16.

[71] Mechiltà Itrò 1,57a-b e 59a; Mechiltà de Rabbì Shimon 86 e 88; Shemot Rabbà 1,32 et al.

[72] Shemot 2,16.

[73] Shemot 2,17.

[74] Shemot Rabbà 1,32; Tanchumà Shemot 11 et al.

[75] Shemot 2,19.

[76] Shemot 2,20.

[77] Devarim Rabbà 2,8.

[78] Shemot Rabbà 1,32; Tanchumà Shemot 11.

[79] Shemot 2,21.

[80] Shemot 2,22.

[81] Shemot Rabbà 1,41.

[82] Hamek Davar su Shemot 2,11; Midrash Lekach Tov, Vaerà 7,17.

[83] Shemot 3,9.

[84] Shemot 3,9.

[85] Shemot 3,4.

[86] Shemot 3,4.

[87] Shemot 3,5.

[88] Zhoar 2,21a-b.

[89] Shemot 3,2.

[90] Shemot 1,12.

[91] Shemot 3,7.

[92] Shemot 1,14.

[93] Pirkè de Rabbì Eliezer 84; Yalkut Meam Loez, Bo 3,20.

[94] Shemot 3,7.

[95] Shemot 1,12.

[96] Midrash Hagadol Shemot 10,21.

[97] Shemot 3,7.

[98] Shemot 1,22.

[99] Yalkut Shimonì Shemot 182.

[100] Shemot 3,8.

[101] Devarim 34,4.

[102] Bereshit 50,24-25.

[103] Shemot 3,10.

[104] Shemot 3,11.

[105] Bereshit Rabbà 55,6; Shemot Rabbà 2,6; Talmud Bavlì, Zevachim 102a et al.

[106] Shemot 3,11.

[107] Shemot Rabbà 3,4.

[108] Mechiltà de Rabbì Shimon 3.

[109] Shemot Rabbà 3,2 e 2,4; Tanchumà Shemot 14 e 20.

[110] Devarim 34,5-6.

[111] Shemot 2,23-24.

[112] Bereshit 2,19.

[113] Shemot 3,11.

[114] Shemot Rabbà 3,6; Tanchumà Shemot 20.

[115] Shemot 3,14.

[116] Shemot 3,15.

[117] Pirkè de Rabbì Eliezer 40; Targum Yerushalmi, Shemot 4,13.

[118] Shemot 4,13.

[119] Shemot Rabbà 3,15-16; 15,14; 17,5.

[120] Shemot 4,13.

[121] Shemot 4,13.

[122] Pirkè Avot 1,14.

[123] Shemot 4,14.

[124] Shemot 4,14.

[125] Shemot 4,15.

[126] Devarim 32,52.

[127] Shemot 4,17.

[128] Shemot 3,17.

[129] Pirkè Avot 1 14.

[130] Shemot 4,18.

[131] Talmud Bavlì, Nedarim 65a; Shemot Rabbà 4,1-4; Tanchumà Shemot 20.

[132] Ernesto Che Guevara de la Serna, rivoluzionario ebreo.

[133] Shemot 4,19; Talmud Bavlì, Nedarim 64b.

[134] Shemot 4,24; Talmud Bavlì, Nedarim 32a.

[135] Shemot 4,25-26.

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